La legge dell’abbondanza
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Internet.

A questa parola ognuno di noi associa diversi significati. Dal nerd che lo definisce con una  complessità tale che ben poche persone riuscirebbero a seguirlo, al filosofo, che sebbene con parole meno inglesi del nerd avrebbe lo stesso risultato tra il pubblico.

Più di una volta ci sarà capitato di intravedere però la Rete come un qualcosa di molto complicato (che funziona con server e altri termini difficili) ma illimitato. Qualcosa senza confini. 

Ogni giorno infatti i nostri sguardi sono volti verso l’infinito ma non oltre la siepe dei colli di Recanati. Quell’infinito sembra essere passato di moda, osserviamo invece un altro infinito che ormai pervade le nostre vite. È il mondo senza limiti contenuto all’interno dei nostri smartphone.

La legge dell’abbondanza, è uno dei dodici pilastri di Internet secondo Kevin Kelly, co-fondatore della nota rivista Wired è appunto la vastità di ciò che si trova sul Web e si sposa a pieno con la sconfinatezza.

Detto così può sembrare molto teorico ma basta farsi una navigata per rendersi conto di quanto venga usata questa legge e lo dimostra Spotify. Abbonandosi all’app non si paga un pezzo di musica, si paga l’accesso a tutta la musica del mondo. Il tutto diventa merce. Non si desidera una porzione, occorre di più. Antipasto, primo, secondo, contorni vari e dessert, con l’amaro gentilmente offerto dalla versione di prova.

Perfino graficamente la si vede questa legge, la freccia del logo Amazon parte dalla A e arriva alla lettera Z, sta proprio a indicare l’abbondanza dei prodotti che si trovano all’interno, capaci di coprire un intero dizionario. Un normale negozio non potrebbe mai disporre fisicamente di tutta quella quantità.

Una ripercussione dell’abbondanza è proprio il fatto che ci sia un mercato per tutto.  

Per anni si è vissuto in una hit driven economy: nella quale i negozi di qualsiasi tipo vendevano solo i prodotti in grado di soddisfare un certo mercato e che avrebbero portato un profitto certo, ignorando gli altri. D’altronde gli scaffali sono limitati, quindi meglio riempirli di prodotti in grado di portare più guadagni no?

La hit driven economy è caratterizzata infatti da una mancanza di spazio fisico, i negozi hanno un determinato spazio sugli scaffali per cd, libri, musica ecc, nonché da una mancanza di domanda sufficiente: per proiettare un film in un cinema bisogna avere almeno un certo numero di interessati nella zona esatta in cui il cinema è ubicato, se quindi la domanda è considerevole ma dispersa geograficamente il film in questione non verrà pubblicato (nonostante gli indiani presenti negli USA non vi è la proiezione di film indiani perché questo numero non è considerevole per la domanda circoscritta). 

Con l’avvento delle nuove tecnologie e di Internet questa situazione si è capovolta, rivalutando nicchie di mercato finora ignorate quali i docufilm e la musica indie. Ed ecco la novità: sommando insieme tutta la domanda per i film, musica, libri di nicchia si ottiene  un volume molto maggiore ai soli “blockbuster.  Questa è la cosiddetta Long Tail di Chris Anderson, dal nome dell’ex direttore di Wired e importante opinionista che l’ha coniata.

Oggi con questa teoria non vale più la legge di Pareto del 20-80 (20% dei film avrà successo e diventerà una hit, l’80% no), per ogni prodotto, qualunque esso sia, vi è un mercato: non conta dove o con che volume, l’importante è che ci sia. La rete può rappresentare uno spazio di vendita, comunicazione e racconto per i prodotti di nicchia.

Le piattaforme sfruttano la legge dell’abbondanza e scorrono lungo la Long Tail. Prendendo sempre Spotify come esempio se si ascolta un artista famoso e si scorre sui consigliati, l’algoritmo consiglierà artisti simili ma con un posizionamento inferiore in termini di vendite, cliccando su quest’ultimo ci consiglierà artisti ancora più in basso e così via.

La cosa curiosa è che la somma di queste nicchie probabilmente varrà di più della somma dei top titoli che potrebbero stare in un negozio fisico di CD. Non è solo una questione di risparmio, Internet conosce i nostri gusti perché ha tutti i gusti e riesce ad  accontentare chiunque grazia alla sua “coda lunga”.